Oggi parlerò di nuovo del mio romanzo, „L'albero dei coccodrilli” - e con questo testo passo alla seconda domanda. Torno quindi alla pseudo/ auto intervista in questione, visto che ho ancora voglia di parlare con me stessa (e meno con chi mi sta intorno). Finora sono state raccolte circa 7-8 domande (insomma, alcune di loro si ripetono...) - ma sono comunque aperta a nuove proposte e suggerimenti.
Domanda n. 2: Bene, ok, e come hai fatto a scriverlo? E come sei arrivata a scrivere700 pagine? (più voci, sia faccia a faccia che via e-mail). E perché l'hai pubblicato proprio ora (è vero, quasi a 47 anni - scusa, mi sono fermata un attimo per fare i conti, non sono mai sicura di quanti anni ho esattamente).
Traduzione della domanda in linguaggio giornalistico: In che maniera hai svolto il processo di scrittura del romanzo?
Risposta ufficiale alla seconda domanda: ho lavorato al romanzo per diversi anni e ho affrontato il processo di scrittura come un viaggio interiore in cui ho esplorato i personaggi e gli eventi in profondità. Ho cercato di creare il mio ritmo di lavoro e lasciarmi assorbire dal mondo che ho creato.
Risposta non ufficiale alla seconda domanda: non so se mi avete sentito squittire di risate dietro le quinte. Anche se quello che ho detto sopra è vero al cento per cento. È solo che le cose sono un po' più complicate (da un certo punto di vista) e un po' meno tecniche (dall'altro). È così che ho iniziato: per prima cosa è apparso il taccuino. Un taccuino stile collegiale, con copertina blu e chiusura in alto, come i blocnotes. Qui devo divagare un po' e farvi sapere (sì, ridete...) che sono all'antica: prima scrivo su quaderno/ diario/ fogli sparsi e solo nella seconda fase, quando riesco a unire la capacità di taglio dal testo con quelle del mantenere ciò che è giusto, passo al computer. Inoltre ogni scritta ha il suo „supporto”. Questo quaderno, le cui pagine volavano, dopo non molto tempo, erano per „L'Albero dei Coccodrilli”. Nel senso che doveva essere esattamente quello e non un altro. All'inizio avevo dentro non so che appunti per una cosa di letteratura comparata; ho piegato i fogli, li ho infilati da qualche parte e ora, quando ne ho di nuovo bisogno, non li trovo. Sì, lo so, suona strano... Per intenderci: per il prossimo romanzo ho un set di tre quaderni, tutti stile college, le copertine sono con dei prismi disegnati, rossi e blu. Sono da matematica e questo si che mi preoccupa davvero. Migliaia di pulci sparse sulla pagina: difficilmente le alleni. Quando devi digitare sul computer ti chiedi cosa diavolo hai scritto lì. C'è, per esempio, un altro set di quaderni, di un’arancione molto attraente, di cui non so ancora nulla: niente titolo, niente argomento, sono solo delle pagine a righe e basta. Bene. Perciò ho preso il taccuino e ho iniziato a scrivere. Non vi darò dei dettagli anche sulla penna, quello è irrilevante. Prima avevo l’abitudine di scrivere con una penna stilografica. Non ne ho più neanche una, me le hanno rubate a un certo punto - alla fine, in definitiva, ero felice, così mi sono liberata del tormento. Tornando al „L’albero dei coccodrilli” - ho avuto periodi in cui mi dimenticavo completamente del testo (il più lungo periodo è stato di circa due anni), altri in cui scrivevo come una matta. Stavo scrivendo (nella mia mente) e nel sonno. No, non c'era un piano, non ho fatto schemi, suddivisioni per capitoli. Mi sono seduta a scrivere come sotto dettatura. Come qualcuno mi stava sussurrando all'orecchio. Questo è probabilmente anche il motivo per cui è uscito così lungo - sebbene ci fossero scene, capitoli che ho accorciato, li ho ripensati in seguito. Poteva essere molto più breve? No, non credo. Spero solo che i prossimi personaggi saranno meno chiacchieroni... Perché lo sto pubblicando solo ora? Beh, perché no? Scherzo, no, questo è più il modo di vedere le cose di una ragazza ventenne. Insomma, non è il primo romanzo che ho scritto. È solo il primo romanzo che ho pensato fosse giusto pubblicare, che merita di raggiungere altri lettori. Questa è probabilmente una distorsione professionale, dato che la mia specializzazione è letteratura comparata e dato che leggo più che posso. Semplicemente non pensavo che quello che avevo scritto fino a questo punto fosse abbastanza buono da essere pubblicato. Fortunatamente (o sfortunatamente?) ho la capacità di distaccarmi dal testo, anche se è il mio. Che sia buono, ve lo posso garantire. Ma sta a voi decidere però quanto potrebbe essere interessante/ meraviglioso/ senza precedenti/ straordinario il testo. Spero solo che voi avete voglia di leggere.
A proposito, come l'ultima volta, vi offro qui un frammento „illustrativo” del romanzo. Godetevelo!
„Aurel lo guardò un po' sorpreso, mentre sua moglie ridacchiava.
— Non è che questa faccenda sia come la storia dell'icner, Bebe caro ?, le fece lui l'occhiolino.
Boian arrossì, ma era determinato a mantenere la sua posizione.
— Voglio dire... aspetta un po... di che storia parlate? chiese Sisou incuriosito.
— Quella dell’icner, gli rispose Aurel, e l'altro scrollò le spalle e strinse le labbra, segno che, sebbene gli fosse stato ripetuto due volte, ancora non capiva di che cosa si trattava.
Boian era impassibile, quindi Aurel pensò di continuare.
— Beh, ricordi quando eravamo noi dei ragazzini, ai tempi di Ceaușescu?
Sisou annuì di sì, si ricordava.
— Ero a casa sua, a Bucarest, credo che stavo in vacanza... E quando s’interrompeva la corrente elettrica, di sera, giocavamo tutti un gioco tipo „Non finire quella parola”, io insieme a Bebe, e con sua madre e suo padre... e a lui non gli piaceva proprio perdere... reagiva sempre male... credo che entrambi avevamao circa dieci, undici anni... così... e a un certo punto questo dice una parola... da dove gli era venuta non lo so, non me lo chiedete.
Si fermò un po' per bere un sorso di birra, si asciugò la bocca con il dorso della mano e continuò:
— Allora, cosa stavo dicendo? E così, Bebe si blocca per un attimo, non sa cosa fare... cosa dovrebbe fare... e dice „ICNER”. E tutti noi siamo sbalorditi, macché stai dicendo, ci stai prendendo in giro, ma che cos'è questo icner? E lui no, che è certo che esiste, che ha trovato lui quella parola in un racconto; e sua madre e suo padre si impegnano entrambi di convincerlo che non poteva stare una cosa del genere - insomma, loro erano persone istruite, non come noi, bambini... Ma Bebe, niente; lui sa benissimo - ci diceva - che l’icner esiste, che la parola è buona e che ha vinto quel giro del gioco. Ma suo padre, furbetto, gli dice: „Bene, caro Bebe, guarda, io ti credo. Lo so io molto bene che tu non menti” – ma queso fatto di dire delle bugie è un'altra storia, ve racconterò dopo. Allora, dice il tizio, „lo so che tu non menti. Quindi, insegnaci cos'è un icner. È una sensazione, diciamo così, oppore possa essere un oggetto?”. E Bebe, di lì: „No” - dice -, „è un oggetto, ma qualcosa di più complicato. È come uno strumento agricolo, che veniva usato ai vecchi tempi, non ora. Voglio dire, è una parola che era, non lo è più”. E suo padre: „Ah, bene. Volevi dire che è un arcaismo. Non è più utilizzata la parola, non che essa non esista”. „Nooo”, dice Boian, „non esiste più e basta. È stata cancellata ovunque”. E ci siamo guardati, io personalmente gli avrei dato un pizzicotto in testa se fosse per me, più perché io non leggevo racconti e cavolate del genere, a me piaceva giocare a calcetto nel cortile della scuola e basta - ma stavano i suoi genitori lì e non potevo. E se loro credevano in questo icner, cosa potevo fare? Stavo perdendo al gioco e basta, era così, una parola in più o in meno non è che a me faceva ne caldo, ne freddo. Inuttile dirvi che suo padre ha aspettato affinché questi qua hanno riavviato la corernte elettrica e poi ha cominciato a prendere dagli scaffali tutti i dizionari su cui riusciva a mettere le mani. Ed ecco suo padre arrivare con una pila di dizionari, perché avevano una grande biblioteca, avevano di tutto loro, e si mette quello a cercare questa parola, e prendilo da dove non viene, non c'era nessun icner da nessuna parte. E suo padre, da lì, dice: „Ehi, caro, sì, ma io pensavo che non fossi abituato a dire delle bugie. Guarda bene, vedi anche tu, non esiste da nessuna parte la parola di cui parli. L'hai inventata tu e basta, dai, ammettilo”. Cavolo, ma anche questi due erano testardi, cosa diavolo gliene importava che il moccioso di loro figlio aveva inventato una parola? E... ma guardatelo, ora ha proprio la faccia che aveva anche allora - e tutti gli sguardi si erano rivolti a Boian che stava seduto con l’espresione di una calma estrema, tenenddo una sigaretta tra le dita - e dice: „Sì che c'è. Te l'ho detto, è uno strumento agricolo. Se non c'è nel dizionario, non è un problema mio”.
– E suo padre è andato e ha preso quel dizionario francese, come si chiama...
– Larousse, rispose Boian, senza che un muscolo gli si muovesse sul viso.
– Proprio così, come dici tu. E indovinate un po... La parola non c'era neanche là!, concluse, prendendo un altro sorso di birra.
– E allora? – chiese Sisou, curioso.
– E allora cosa? Niente. É andato avanti per sua tutta la serata con questo maledetto icner, come se noi fossimo degli stupidi che non sapevamo che certe parole esistono e altre no”.
(Cristina Deutsch. Arborele de crocodili/ L'albero dei coccodrilli, Ed. Eikon, 2023, p. 319-321).
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